Teatro e mistica. Un viaggio di andata e ritorno
Cosa c’entra il teatro, arte spuria se ce n’è una, con la mistica, purezza d’unione con Dio?
Proviamo dunque a percorrere il transito tra questi due territori, a misurarne una distanza. Premessa: chi scrive è un teatrante, con qualche suo interesse spirituale, quindi questo intervento non ha alcuna pretesa oggettivante: è di parte.
L’immagine che abbiamo del teatro è quella di un ambiente di disordine, di privilegi oziosi, di cene post-spettacolo. Non ci siamo in fondo mai del tutto liberati, qui da noi, dal topos del gruppo di comici, quelle famiglie della Commedia d’Arte, che vagavano per l’Europa su carri pieni di costumi, scenografie, bambini. In realtà sono ormai secoli, due almeno, che il teatro in Europa è borghese, e i teatranti funzionari, personaggi ammirati, con conto in banca e appartamento in centro. Anche adesso che si stringe la cinghia, non è che cambi di molto il modello: diminuisce il numero di occupati.
Nel novecento qualcuno ha preso un’altra via, ha proposto un’altra idea di teatro, e teatrante. Il Living Theatre col suo nomadismo, hippy e gioiosamente libertario, l’Odin e il suo teatro antropologico, ma soprattutto, riguardo al tema qui trattato: il lavoro di Grotowski in Europa e, in Giappone, l’incontro tra Hijikata e Kazuo Ohno, atto di nascita della danza butoh.
Grotowski ha proposto disciplina, serietà di processo, rigore, ricerca delle radici, ore di sala prove, attenzione, al corpo stanco del performer occidentale. Lo stesso ha fatto, in altro modo, il butoh, danza non-danza che nasceva punk, come protesta all’invasione yankee, per poi farsi, negli anni, nel silenzio, splendidamente rituale, ancorché laica. Il lavoro di Grotowski e il butoh hanno fornito ai teatranti degli strumenti potenti, un training semplice e ossessivo, servendosi del quale (con l’aiuto di una guida intelligente) il performer può scoprire qualcosa, di sé e di quel che può fare. Stiamo parlando di strumenti non stilistici, non esteriori, ma delicati, propedeutici a un’espressività che nasce informe, al risveglio di corde profonde. Non a caso ci si richiama qui a una tradizione, lo yoga per il butoh, i canti vibratòrii per Grotowski, la cui distanza viene data per scontata, ma la cui efficacia è percepibile, ancora e sempre, dentro i corpi, in quelle risonanze che, nei corpi, il lavoro produce.
Sin qui ho tentato, molto brevemente, un transito dal teatro alla mistica, indicando nel Butoh e nel lavoro di Grotowski, i tentativi secondo me più forti, di dialogo con l’elemento spirituale, per dire così. Ora vorrei fare il transito inverso: partire dalla mistica.
Scrive Meister Eckhart: se uno pensa di ricevere Dio in un dolce rapimento, in una grazia particolare, più che davanti al camino o nella stalla, costui afferra Dio, gli avvolge un mantello sulla testa, e poi lo caccia giù, sotto una panca, perché chi cerca Dio secondo un modo, prende il modo e perde Dio, che è nascosto nel modo. L’ammonizione del maestro di Erfurt chiarisce cosa non è l’unione mistica: una vacanza, un punto d’arrivo. Piuttosto, con l’immagine della stalla e del camino, si allude qui alla vita quotidiana, dove servono strumenti di attenzione, e dove niente viene dato per sempre: va rinnovato con la nostra presenza. E invece ancora la parola mistica, come s’è visto per la parola teatro, ci fa fare collegamenti immediati, e fuorvianti, col suo uso comune, nel quale è prossima a qualcosa di oscuro, addirittura patologico (delirio mistico si dice normalmente). All’immagine del carro di straccioni, dei commedianti epicurei in trasferta, corrisponde qui il quadro dell’orante, con gli occhi al cielo, la bocca semiaperta, murato nella sua cella in penombra.
Ma è un fatto che tutti i grandi mistici, quelli che ancora oggi noi leggiamo, sono lontani sia dalla follia che da un certo paternalismo devoto. Chi ha sfidato la prima e quasi ha perso (penso a Surin), alla fine, spossato, disarmato, ha attinto luce da un riposo puro, dal quale ha tratto una voce trasparente. Chi ha convissuto col secondo (tutti i predicatori), ha spinto la propria fedeltà così lontano, da farne una libertà postuma a tutto.
C’è per me una linea forte, dentro la mistica cristiana, che va dalla furia pubblica di Eckhart, a quella intima del dottor De la Cruz, si gusta nel genio liquido di De Caussade, arriva fino a Charles de Foucauld, intransigente, dolce, fiorisce nell’intelligenza di De Certeau, donata all’oggi, o nello sguardo e nelle parole di Arturo Paoli, amaro, disarmato…
Cosa accomuna questi sentieri tra loro, quello di un Jerzy Grotowski e di un Tatsumi Hijikata, con quello di un Michel De Certeau o di Arturo Paoli?
A me sembra, per concludere, di poter dire almeno questo: nell’opera dei grandi teatranti vedo un transito, continuamente ripercorso, dalla vita al teatro, sia nel senso di una purificazione (abbandonare la vita da teatrante per lavorare alla vita del teatro, per dirla con Julian Beck), sia in un senso poi di proposta e di precisazione (la codificazione e l’importanza del training, un rapporto più profondo e meno scontato con la tradizione, la preminenza del processo sul risultato). D’altra parte, nella vita e nell’opera dei grandi maestri di spiritualità, dei grandi mistici, io leggo un transito continuo, continuamente risperimentato, dall’orazione all’entrata nella storia, dalla contemplazione alla vita pratica, come il passaggio eckhartiano ci ricorda. L’incarnazione è il fatto primo e ultimo, il campo di battaglia non è più la mente, non di continuo, e non alla fine, il campo di battaglia con noi stessi è fuori, là fuori, nei luoghi della relazione, con gli altri, con le cose, là dove si è chiamati infine a vivere, testimoniare, amare. Il teatro conosce la carne, da sempre, e vuole adesso non allontanarsene, ma graduare maggiormente il suo strumento. Per farlo fugge sia la strada che i teatri, diventa aristocratico, rituale. La mistica è contemplazione che s’incarna, che ambisce a ritrovare un corpo nuovo, purificato, pronto al dono di sé, così facendo si scioglie nella storia, si offre alla relazione: dialoga.
E tuttavia i due pellegrini sul sentiero, il mistico e il teatrante, non si incrociano. O se si incrociano, magari si salutano, si riposano in un punto centrale, si scambiano consigli, confidenze, ma non invertono mai la loro rotta. Forse concorrono a qualcosa di comune, ma dentro due vocazioni irriducibili. L’estetico può forse farsi etico, ma politico mai, mai fino in fondo. Il mistico invece è politico (lo aveva capito bene De Certeau), la sua eleganza estetica un di più, non sostanziale. Così il mistico si sporca nella strada, s’incarna nel suo teatro radicale, si dissìpa, poi torna a casa, dentro un silenzio in cui cade stremato. Il teatrante si purifica in prova, lungamente, la sua è un’ascesi concentrata, attenta, poi torna a casa, e cerca corpi vivi, bar, parole. Oggi i tragitti dei due sono mischiati, pare, c’è un’incertezza a compiere i cammini: il mistico è tentato dalla bellezza, il teatrante forse dalla giustizia, entrambi quasi cedono a fuggire.
Ma l’efficacia, e la salute mentale, del teatrante e del mistico, poggiano proprio su questa condizione: che il loro viaggio sia di andata e ritorno.
Alessandro Berti, 2013