Teatro e genere
intervista a cura di Simonetta Ottone
In POLITICA AL FEMMINILE, Regione Toscana, maggio 2015 – Alessandro Berti viene dalla Scuola del Teatro Stabile di Genova. Fonda insieme a Michela Lucenti, anche lei giovanissima, L’Impasto Comunità Teatrale, di cui scrive e dirige tutti gli spettacoli. Vince il Premio Gherardi (2002) con il suo Teatro in Versi, poi dirige la Scuola Popolare di Teatro di Udine e il Progetto sul disagio mentale Arte/Società/Follia.
Alessandro è un viaggiatore, un raffinato esploratore di paesaggi umani. Vive il teatro e lo scrive incessantemente, impastato nella carne, accadimento fisico di un rito unico e irripetibile. Non è un attore che reciti: quando lo si guarda in scena sembra che la grande finzione sia la nostra vita stessa, non ciò che esce dal suo teatro. “Davvero di gratuità e dismisura d’amore, ha bisogno il teatro per liberarsi dalle secche di quel narcisismo autoreferenziale che miete vittime in ogni settore dell’arte e ne paralizza anche i più ambiziosi slanci creativi; una patologia talmente diffusa da risultare invisibile, e di cui si prende gioco Alessandro Berti (…)” (Silvia Guidi, L’Osservatore Romano, 29 Settembre 2011).
Finalmente lo incontro: un giovane uomo, magro e sorridente, che trattiene ostinato in sé il senso d’incanto del ragazzo.
Come ti sei avvicinato al teatro e alla sua scrittura?
Ho sempre scritto. Per il teatro ho scritto, e continuo a scrivere, semplicemente perché ho studiato come attore, così recitare quel che scrivo è la cosa più semplice. Ma scrivo un teatro non teatrale, più vicino alla poesia o al racconto.
Nel tuo lavoro sei venuto in contatto con la Toscana?
Alla fine degli anni novanta sono stato a Pontedera, prodotto da Pontedera Teatro. E ancora prima ho studiato a Montalcino e a Rosignano, in quei corsi europei di inizio anni novanta, memorabili per risorse economiche e per mia totale incoscienza (ero un allievo scostante e polemico).
Chi sono i tuoi riferimenti, i tuoi Maestri?
Sono performer, scrittori/ici, danzatori/ici: Leo de Berardinis, Thomas Bernhard, Jerzy Grotowski, Yoko Muronoi, Ingeborg Bachmann, Uwe Johnson, Eduardo, Claudio Meldolesi, Tatsumi Hijikata, Kazuo Ohno, Luisa Muraro.
Qualcuno di questi è una donna.
Yoko Muronoi è una danzatrice butoh giapponese, in tre giorni mi ha insegnato a coniugare ricerca spirituale e ricerca espressiva: una maestra ineguagliabile. Vive su un’isola sperduta, in Giappone, coltiva un orto, e una volta al mese va a Tokyo a dirigere un workshop, coi soldi che guadagna si mantiene il resto del mese, in contemplazione. Ingeborg Bachmann è una scrittrice che ha espresso una misura memorabile tra poesia e prosa: un modello. Anche rispetto alla durezza con cui tratta le proprie radici, quell’Austria intrinsecamente autoritaria che ricorda l’Italia fascista, che secondo me non è ancora del tutto assente dai nostri modelli culturali inconsci. Luisa Muraro è una femminista che a un certo punto ha capito che la mistica è stata, per le donne, un terreno di rivoluzione e emancipazione, e nello scrivere ha uno stile concreto, anche se molto complesso e culturale, stile che è per me riferimento, come anche il nodo di temi che tratta.
Cosa pensi del rapporto donna e teatro? Trovi che le donne siano in posizione subalterna rispetto agli uomini, che rispondano sempre al ruolo di musa o interprete e raramente a quello di autrice e creatrice? Ci sono in Italia donne autrici da ricordare in questo senso?
L’Italia è un paese ancora profondamente machista. In ogni campo. Alla Scuola dello Stabile di Genova, vent’anni fa, le ragazze dovevano imparare le parti da maschio. C’è un pregiudizio di fondo non solo riguardo all’intelligenza delle donne (ridicolo ma storicamente forte), ma anche riguardo all’emozione, terreno nel quale, pur in modo stereotipato, una società maschile dovrebbe lasciare qualche spazio. Il teatro, esperienza che prevede una sintesi tra intelligenza e passione, corpo e ragione, potrebbe essere un luogo ideale di un’integrazione maschile-femminile. Ma il teatro di un paese nasce dalla sua cultura, e la cultura italiana rimane molto tradizionale in fatto di immagine della donna. Sulla scena italiana però ci sono molte donne autrici: Ilaria Drago e Emma Dante nel teatro; Michela Lucenti, Silvia Rampelli, Francesca Proia, Alessandra Cristiani nella danza; Nhandan Chirco nella performance. Ce ne sono molte altre, queste sono solo le prime che mi vengono alla mente.
Quanto è difficile oggi il mondo del Teatro?
Per me il mondo del teatro è sempre stato difficile: sono precario da vent’anni.
Cosa vuol dire promuovere operazioni culturali indipendenti?
Vuol dire essere vivi, perché essere vivi significa seguire la propria vocazione in modo del tutto incurante del contesto. Certo, vuol dire anche non poter accedere a un mutuo: confidiamo in una qualche eredità.
Che spazio ha attualmente in Italia il teatro contemporaneo?
Uno spazio piccolissimo, infinitesimo. Ma il Vangelo insegna che il regno dei cieli è come un seme di senape.
Che sistema ci manca rispetto a altri paesi europei?
Personalmente trovo il sistema europeo troppo protettivo rispetto alla cultura, come il nostro è troppo indifferente o addirittura sprezzante. Ci vorrebbe una via di mezzo tra il paternalismo continentale, che addormenta, e la volgarità italiana, che deprime o rende isterici.
Nei Centri di produzione e distribuzione teatrale, il piano decisionale è maggiormente ricoperto da figure femminili o maschili?
Sono fuori dal giro da molti anni. Siccome ultimamente nei miei spettacoli parlo di mistica, i miei interlocutori sono uomini di chiesa, perlopiù. Nella Chiesa italiana e attorno ad essa, un ambiente dove la donna ha un’immagine anche qui tradizionale, ho però fatto degli incontri molto belli con donne dalla personalità forte e dall’intelligenza notevole. Penso ad alcune teologhe come Rosetta Stella, Cettina Militello, o alla giornalista Silvia Guidi.
Trovi che la società in cui viviamo sia violenta nei confronti delle donne? E perché? C’è una sperequazione di potere e opportunità fra i due generi?
Il problema è sempre nell’immaginario, e l’immaginario deriva dall’educazione, e l’educazione è perlopiù quella che ricevi in famiglia. Come cantava Giovanna Marini: ‘è una lunga catena da spezzare’. La violenza di genere nasce da un’educazione che non è altro che la trasmissione di modelli astratti, oggettivamente portatori di conflitto. Questi modelli costringono uomini e donne dentro un’immagine di sé completamente avulsa dalla realtà, dove il femminile e il maschile, che pure esistono e sono diversi, potrebbero trovare un accordo meno schematico, più fluido, insomma più naturale. Anche nella natura c’è violenza, ma la violenza di genere credo piuttosto nasca da una perversione della natura, una perversione che viene da una educazione a vincere, a prevalere sugli altri, a farcela contro tutti e su tutti. Ovviamente questo modello è stato trasmesso principalmente ai maschi, ma spesso anche le donne vincenti faticano a intaccarlo, a esserne immuni. Solo la politica delle donne, la politica del desiderio, quella parte del femminismo che si è evoluta in coscienza di genere, ha detto parole chiare a riguardo. Siamo molto indietro e il problema è che spesso anche torniamo molto indietro. Nessuna acquisizione storica è per sempre.
Cosa significa per te la paternità o l’assenza di paternità?
La paternità è arrivata nella mia vita in modo del tutto inaspettato e l’ha cambiata radicalmente. Credo sia un’esperienza fondante. Non lo dico solo in senso positivo, non idealizzo nulla: la realtà nella sua pienezza ha un sapore forte, nel bene e nel male. Mi sembra che la società occidentale sia troppo a misura di adulti singles, eterni adolescenti che saranno vecchi annoiati, con tutto quel che comporta in termini di infantilismo sociale, distruzione ambientale, mancanza di responsabilità, incoscienza rispetto ai problemi reali. Ovviamente anche molti padri rientrano in questa categoria, ma per fortuna molte donne non lo permettono più così facilmente.
L’ essere un lavoratore autonomo e indipendente di un settore in Italia così fragile, che conseguenze ha sulla costruzione di un progetto di vita e familiare?
Non ho mai pensato che avrei dovuto prima essere in una situazione economica stabile per poi fare dei figli. Credo che il nostro sia un precariato protetto, perché i soldi ce li hanno i nostri genitori, la generazione che ce l’ha fatta. Quindi bene o male mio figlio sarà tutelato dai soldi dei nonni.
Che importanza hanno nella nostra società la cultura e in particolare il Teatro?
La cultura è vista come un prodotto di consumo, anche a sinistra. Siamo lontani dall’idea di cultura come educazione del popolo, idea che animava il PCI e parte della DC (penso a riviste come Il Politecnico, comunista, o Cronache Sociali, cattolica, che dopo la guerra sono state un faro in questo senso). Oggi, anche in Europa, la cultura è consumo. E’ per questo che l’importanza che la cultura ha in Europa non mi attira per niente, perché è l’importanza di un’area di consumo. Bisogna ripartire dalle scuole, dall’educazione, e da ideali anti-borghesi. Il problema è che non tutto quel che è anti-borghese è buono. Anche il fascismo è anti-borghese, per dire. Invece il cristianesimo, che è quanto di più anti-borghese ci sia, spesso si è alleato con la borghesia, tatticamente. Questo papa lo sta ridando al popolo. Qualsiasi esperienza di condivisione pratica tra umani, vissuta senza gerarchie, liberamente scelta e portata avanti, qualsiasi esperienza comunitaria, anche effimera, che per un tempo e in un luogo unisce le persone attorno a un fine più ampio che il proprio benessere individuale o familiare, è destinata a creare più cultura che un insegnamento nozionistico che porta all’agonismo tra soggetti, in vista di una vittoria individuale.