MIRACOLI / appunti spirituali a partire da qualche pensiero di Simone Weil
di Alessandro Berti
(Questi appunti sono una specie di discorso da bar su temi che al bar non si trattano. Il ritmo, come nei discorsi da bar, è molto importante e le virgole (,) o le barre oblique (/), usate indifferentemente, determinano le scansioni ritmiche, le pause.)
I. ascesi / mistica
La fede sposta le montagne, è nel vangelo: se con fede dirai, a questo monte: via, buttati in mare, adesso e crederai, fino in fondo a quel che dici, avverrà. Quanto è fondo il fino in fondo, quanto spazio, abbiamo dentro che la fede, quella lama, può percorrere? Quanto ne siamo scossi, attraversati, quanto sappiamo preparare il terreno, aprire in pieno il canale, fare spazio, al transito del soffio, all’ascensore, che scende al centro della terra e quando sale, pieno di forza, di fuoco, può far spostare una montagna? Chi lo sa.
Noi piccoli recipienti, noi vasetti, dal fondo solido, chiuso, un pavimento, contro cui capita spesso di cozzare, quanto hanno lavorato i nostri padri, a questo pavimento, a travestire, i nostri eccessi, per non essere / tacciati di isteria, di bile nera, il pavimento duro ci protegge, la sindrome è subclinica, tranquilli, è sangue buono, non troppo generoso ma normale, può mischiarsi col resto, avere eredi. L’ampiezza, qualsiasi ampiezza, se non presto applicata all’arricchirsi, di gloria, di denaro, è sospetta, da cui per esempio il dir delirio mistico, diagnosi al primo tremolio della mascella, e sguardo al cielo, perduto tra le nubi.
Eppure no, spostare le montagne, questa prova di fede, è più un’ascesi che una mistica, direi, più un gesto di volontà portata al limite, che un abbandono fiducioso, un unirsi, a quello che sarà, col nostro fiat. Nella fede, nel gesto di ospitarla, darle casa, e farla crescere forte, c’è una concentrazione di energie, un collaborare, umano al soffio, all’oltre, ad un di più. E’ quello che un’anonima francese, nel millesettecentotrentadue / chiamava il tempo / in cui l’anima è in dio / contrapposto a un altro tempo, superiore, per densità e per luce, nel quale invece dio vive nell’anima.
Anche Simone, infastidita dai miracoli, dai segni esterni, preferiva di gran lunga, guardare in faccia il miracolo grande, l’amore spassionato, la gran pianta, dai frutti pieni e saporiti, era cioè, Simone, del tutto mistica, del tutto unita alla voluntas tua, del pater noster cristiano, che amava. Per Simone dunque il miracolo vero, non è acquisire, concentrare energia, ma dissiparla, non trattenere nulla: nemmeno un muscolo, per quanto interno, sia coinvolto.
Non si fanno miracoli così, si è noi stessi miracolo, segno mostrato, osteso, straccio al vento, e poi furioso fare, quando occorre. Signore non son degno di dire / a quel monte: su, spostati, non voglio / passi per me la gloria, che il mio nome / sia ricordato per qualcosa ma che tutto / dia gloria a te / ch’io sia strumento ininterrotto, anonimo.
La possibilità di una grazia protratta, di una vita come miracolo continuo, mette d’accordo tutti i mistici: è questo, il segno del tocco angelico, l’unzione. Chi è spettinato dallo spirito sorride.
II. umiltà / umiliazione
Fin dove deve arrivare l’umiltà? E che cos’è umiltà, cosa vuol dire? Direi così: scomparire da vivi, con destrezza, fare tutto il possibile, però senza intaccare il midollo, esser di quel midollo i sacerdoti. Un sacerdote, a parte il suo vegliare sul mistero, è un uomo umile, comune, non ha nulla, che lo distingua dal resto, che lo elevi. E’ lui che deve elevare quel che è eterno, mostrarlo in luce, ma lui restando in ombra. L’umiltà sarebbe insomma disciplina, scelta del meglio, attenzione, presenza. E rispetto prima di tutto per se stessi, per il nostro aggregato naturale, quel che siamo, e non possiamo non essere. Questa è umiltà. Ma tenersi centrali, intenti solo a quel campo d’azione, quel terreno, che ci è dato da arare, vero, vivo, è difficile. L’umano eccede, fatica a rinascere, piuttosto si sbilancia, s’ossessiona, vuole esser santo, eroe, vuole distinguersi.
Il rischio è uscir dal cerchio, avventurarsi, in luoghi non più nostri e là persistere, in una febbre scomposta, un sopportare, che ci trasforma in schiavi, l’occhio spento.
E’ il grande mare dell’umiliazione, quell’abbraccio, col male eterno, col dolore, quel tuffo, dentro la vasca amara: ci si allena, a un inferno feriale, ci si amputa. Qui però cova una pigrizia polemica, un gusto a risentire, un godimento, a incidere sul braccio, sempre, ancora, i segni di una via crucis. Si risorge? E’ possibile. Se ci si toglie in tempo, è possibile. La salute mentale, perlopiù, è questione d’ambiente, non di géni.
III. non sapere
L’umanità si parla però a gruppi. Chi è quasi morto ha una lingua marziana, come chi è appena nato. La capiranno i quasi morti, i nuovi nati. Ma perlopiù la lingua estrema resta muta, incomprensibile. L’omaggio che le si fa è di galateo. Se non superstizioso, per tener buoni gli spiriti.
La vita ha in sé una legge misteriosa, che apprendiamo lentamente, e poi di botto. E poi di nuovo applicandoci, ferendoci, su certe punte nascoste, in certi abissi. Quale sia questa legge non sappiamo, già è molto se impariamo a starne sotto, a danzare a memoria una danza, che salvi il nostro aggregato dalla noia, dalla furia polemica, dal caos. E tuttavia ne abbiamo indizi, tracce, segni, di questa legge eterna, per esempio: usare male la vita la scompone, ritorna indietro monca, separata, ci cade addosso come un vecchio soffitto.
Questa carne è più fragile / di come ci hanno detto, di così / E’ carne più mortale, più porosa / Le macchine l’accerchiano e non è / come le macchine / questa carne abitata, questo soffio / che la scuote e la placa, questo straccio / non ha la superficie, le misure / gli angoli retti, il colore uniforme / di una macchina, non crederlo. / Ti guardo riposare nel silenzio / che tu sia vivo è un miracolo / che tu sia vivo ancora, per un po’ / Ah, guardarci così / riuscire sempre a guardarci così…
Bambino impara dal mio sguardo, dal silenzio. Dirò poche parole, starò fermo, ti insegnerò a guardare guardando, lasciandomi spiare, starò fermo. Imparerai guardando un muto, un corpo, lì davanti, intento sempre a qualcosa, per te. Per insegnarti l’attenzione.
IV. miracoli
Credo ai miracoli. Ma diffido della nostra capacità di vederli. E volontà di vederli. Tutte le concentrazioni di energia in quantità molto maggiore del solito, c’inquietano. E’ il motivo per cui temiamo l’atomo, l’aereo, le distanze dello spazio profondo. Il miracolo è un coagularsi di energia. Per un cristiano però, l’energia messa in campo non è propria. Quindi l’azione propedeutica allo spirito, al suo arrivo, al tocco che guarisce, non sarebbe / una concentrazione ma al contrario, un abbandono di sé, uno svuotamento. La guarigione avviene forse proprio quando / non ce ne importa più nulla di guarire / è un fiat voluntas tua, di nuovo, sempre.
La questione è: cosa possiamo fare, per mettere più amore dentro il mondo? Una questione così fondamentale, ci deve vedere attivi, in qualche modo: i giorni della contemplazione son passati. I giovani diffidano, di uno sguardo razionale sulle cose, vorrebbero restare amniotici per sempre. Può essere però si vada incontro / a un tempo in cui, tremanti, ragione e passione, si curveranno sopra il mondo, sollevandolo. Già nella nostra vita di ogni giorno, aneliamo a una misura più centrata, a qualche sintesi tra facoltà logiche e una voglia, un bisogno d’amare. La poesia di un tempo del genere sarà umile.
Simone diceva che il valore che diamo alla mistica, in quanto civiltà, l’importanza, che riserviamo allo scavo del mistero, dipende dal valore che si dà, ai dati d’esperienza, dice lei. Con dati d’esperienza credo intenda / le informazioni che possiamo attingere, direttamente, da quel che viviamo. In un mondo di regole, il nostro, e di necessità di uniformarsi / a una ritmica complessa / i dati d’esperienza della gente, delle persone in carne e ossa non son più / il punto di partenza / della loro comprensione della vita / né stanno a monte delle loro decisioni. Al limite si trasformano in poesia, scrittura chiusa, quando va bene in cantiere immaginario, che possiamo, qualche volta, far fruttare, e trarne sussistenza materiale, o al limite una vicaria consolatio. Ma il tronco pare tagliato ormai, interrotto, il transito della linfa si è perverso. E i dati d’esperienza, tutto quello, che la vita c’insegna, non la cambia, la nostra vita, non può farlo. E diventiamo amari.
Un mistico invece crede all’esperienza. Crede all’intuizione che ha del mondo, crede a quel che gli succede, vive unito. A rigore, dire mistico è dir vivo, pienamente.
Allora unirsi alla vita, del tutto, seguendo la vocazione che si mostra, con attenzione, nella pienezza di un destino, di un sì detto: tutto questo significherebbe dar valore, ai dati d’esperienza, far partire / la vita dalla vita, cioè unirsi così tanto, così a fondo, alla vita, da intravederne l’oltre, in questo abbraccio (come, tra umani, dall’abbraccio esce l’odore dell’altro).